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The Thing, «La Cosa», una «paranoica parabola cinematografica», secondo la definizione che la critica americana diede di questo film, uscito nel giugno del 1982 per la regia di John Carpenter e tratto da un racconto di Jhon W. Campbell, è un prodotto piuttosto ibrido, sotto molti aspetti notevole, difficile a definirsi; esso non presenta nella sua trama una rivisitazione mitica precisa, ma malgrado ciò lo riteniamo ugualmente significativo per la nostra ricerca, data la possibilità che ci offre di fare un certo numero di considerazioni.

A nostro avviso la pellicola rappresenta innanzitutto la forma liminale dello stile contemporaneo con cui si confezionano i prodotti di genere horror, fondamentalmente basati sugli impressionanti effetti speciali a base di sanguinosi smembramenti, nauseanti trasformazioni e decomposizioni varie, per la realizzazione dei quali pare vengano spesso utilizzate addirittura parti di cadaveri animali. Ma in questo caso la grossolanità di tali operazioni diviene, paradossalmente, oltremodo raffinata, e si coniuga con velleità psicologistiche, sulla traccia evoluta di Alien: troviamo, tra l’altro, un’idea del mostruoso che la psicoanalisi potrebbe descrivere come rappresentazione mediata di ciò che essa definisce «visione primaria»1. Al nostro parere a proposito dell’analogia semantica di un certo genere di horror con le produzioni dell’immaginario pornografico abbiamo già accennato; tuttavia, in questo caso la parentela in questione è particolarmente evidente: ci troviamo di fronte, per fare un parallelo, ad un hard core del terrore, ad una pellicola rigorosamente XXX rated, come è d’altronde testimoniato dal fatto che il film, appartenente ad un genere per lo più fruito dagli adolescenti, sia stato, almeno in alcuni casi, vietato ai minori.

In sintesi, il racconto ci narra di un gruppo di uomini isolati in una base antartica (verosimilmente ricercatori scientifici) che si trovano a dover fronteggiare una misteriosa ed invisibile entità, una indefinita via di mezzo fra uno spirito maligno ed una aliena forma di vita vampirica, in bilico, diremo così, tra un’idea di «infezione individualizzata» ed una di «pazzia incarnata»; da questa caratterizzazione ambigua deriva l’appellativo generico, ed oltremodo inquietante, di «la Cosa», come viene battezzata dagli stessi protagonisti. Di questo essere ci è dato di sapere solo che esso ha il potere di insinuarsi nella compagine psicofisiologica dei viventi e di alternare l’organizzazione genetica, facendo sì, per così dire, che i loro corpi impazziscano e, deviando dal loro normale decorso metabolico, diano luogo ad una crescita abnorme, deformandosi e trasformandosi in un groviglio mostruoso di carne brulicante.

Non è facile descrivere la forza d’impatto di questi shock effects, come sono chiamati negli Stati Uniti i trucchi cinematografici di tal genere (affidati nel caso presente a R. Bottin, A. Wihtlock e R. Arbogast), presentati in modo massiccio e modulati in un crescendo spaventoso nel film: il corpo infettato da questa sorta di tumore esplosivo si gonfia, la testa e le membra si squarciano ed altre ne sgusciano fuori, le quali si sfogliano in altrettanti organi abominevoli e tentacolari, in un parto «non-stop» che ci offre la galleria più completa di aborti animali ed umani immaginabile, in una frenetica organizzazione e disorganizzazione di immonde carni che lascia, alla fine, un pietoso ammasso fumante di poveri resti; il tutto sostenuto da un sound (rumore di ossa che si spezzano ecc.) che accompagna le immagini in maniera altrettanto efficace. Questa sorte tocca a quasi tutto il numeroso gruppo dei protagonisti, nel quale infine si diffonde il sospetto reciproco, ciascuno pensando che l’altro possa essere il prossimo a subire l’attacco e a diventare, conseguentemente, un nemico. Anche in questa pellicola l’uomo rimane sconfitto dalle forze maligne e, quando termina la proiezione, l’abominevole sarabanda partogenetica incombe ancora minacciosamente sulla fantasia del turbato spettatore; il quale, d’altronde, già nella sala di proiezione scrutava il suo vicino di poltrona, sotto le spoglie del quale poteva verosimilmente covare il germe maligno della «cosa».

Specificamente dal nostro punto di vista, al di là della interpretazione psicologistica, possiamo scorgere nella pellicola un richiamo al motivo mitico della punizione divina a seguito di determinate colpe, oppure al carattere considerato trascendente, nelle stesse mitologie, della causa scatenante la malattia intesa come insieme dei processi degenerativi cui è soggetto il corpo: tutte ansie che la civiltà moderna ha apparentemente razionalizzate e, nel caso specifico, contenute in scienze quali la microbiologia, ma che evidentemente riemergono nell’immaginario collettivo sotto le specie della rappresentazione di queste sorte di «piaghe d’Egitto», come nella paura irrazionale del cancro o, negli ultimi tempi, dell’epidemia di A.l.D.S.; riemersioni sì di ordine millenaristico, ma che forse nascondono anche la preoccupazione di perdere il controllo di una compagine psico-fisica sempre più dissociata, che l’“istituzionalizzazione” dello psicofarmaco rischia di non riuscire più a contenere. La psicologia del profondo avrebbe sicuramente molto da dire su tali abissi, che denunciano il timore della collettività di trovarsi in balia del «maligno»; in questo modo viene tradita l’inconfessata paura, squisitamente spirituale, di decadere definitivamente, dalla qualità organizzatrice, nel burrone della cieca e disarticolata quantità: in definitiva, dallo «spirito» nella «materia».

Orrore rappresentato secondo i canoni della pornografia ed un diffuso senso apocalittico sono i caratteri peculiari di questa pellicola; ma c’è anche una parodistica parafrasi di certe pagine di alcuni testi sacri tradizionali, come quelli indù od estremo-orientali, nelle quali per affermare la necessità del cosiddetto distacco dal mondo (al fine di conseguire la liberazione od almeno la salvezza) ci si serve, oltre che di argomentazioni metafisiche, di lunghe descrizioni del corpo umano che appositamente vogliono risultare demotivanti, mostrandocelo nella sua effimera condizione e mettendo l’accento sulla ripugnanza dei suoi contenuti e componenti. La differenza risiede nel fatto che il film non ci addita nessun mondo sovrannaturale, nessuna possibilità di redenzione, nessuna via di risalita dall’inferno che ci mostra; ci lascia affogare in un letamaio, suggerendoci forse proprio il contrario di quello che ci vogliono esprimere quei testi: approfittare, finché possiamo, del piacere almeno «estetico» che lo sterco ci può dare.

Note
1. Vale a dire l’immagine vista o intuita nei primi anni di vita dal bambino, in modo contemporaneamente eccitante e, non avendo ancora avuto luogo lo sviluppo genitale, frustrante, della unione carnale dei genitori; immagine che secondo certi psicoanalisti sarebbe simbolicamente rappresentata da ogni mostro composito della mitologia tradizionale, quale, secondo loro, la sfinge. In questa prospettiva cosa bisognerebbe pensare della grandissima diffusione, nei giocattoli contemporanei, proprio di queste caratteristiche di mostruosità, nonché di esasperata modularità? Ritorneremo più oltre su questo punto.
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