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Sabato pomeriggio, il giorno delle inaugurazioni nelle gallerie d’arte. In città oggi ce ne sono tre, ed io, un po’ per piacere un po’ per dovere, dovrei essere presente. Decido di andare alla personale di un milanese emergente, che espone strane installazioni concettualmente sospese tra allusioni tecnologiche e suggestioni cyberpunk, disertando per il momento gli “agravitazionali”.

Lungo la strada passo vicino ad un gruppo di ragazzi vocianti dall’aria vagamente citazionista: basetta lunga, zampa d’elefante, siluettes massmediologiche perfette, impensabili una decina d’anni fa. Sono parcheggiati davanti ad una sala giochi con un’insegna alla Las Vegas. Ricordo di essere stato campione di Space Invaders, il primo videogame di successo uscito in Italia all’inizio degli anni ottanta, file di robottini verdi a cui sparare a raffica nei bar di periferia. E’ un pò tardi, ma decido di entrare un attimo. Un pò imbarazzato per l’evidente differenza di target, sono colpito immediatamente dal rumore totale che permea l’ambiente: innumerevoli musichette, effetti digitalizzati, spari, voci elettroniche, colonne sonore miscelati insieme in un sound alla Blade Runner. E decine di macchine da gioco intorno cui si muovono –interfaccianti– i ragazzi, fra imprecazioni ed esulti (particolare curioso: le ragazze, per lo più, guardano e basta, le prodezze dei boy friends “smanettoni”). Mi avvicino, la galleria di video diffonde un bagliore surreale d’intorno, una miriade di icone interattive mi impressiona la vista, creando anche per gli occhi, oltre che per le orecchie, quell’effetto pastiche così squisitamente post-moderno. Decine di ambienti virtuali coabitano nello stesso ambiente fisico, creando una sorta di catena di mondi paralleli.

Come non pensare alle descrizioni dei viaggi sciamanici conseguenti l’assunzione di qualche misterioso fungo? Ma i paralleli fra l’alterazione chimica e quella elettronica sono già stati fatti. Piuttosto, osservando l’immagine sui monitor, due cose mi colpiscono particolarmente: innanzitutto la “texture virtuale”, da cui l’immagine di luce viene generata impressionisticamente attraverso pixel che si dispongono lungo le coordinate degli schermi come lungo l’ordito e la trama in un antico tappeto persiano, del quale peraltro le figure avevano esattamente lo stesso aspetto a “scalini”. Come non pensare, ancora, al fatto che nella tradizione islamica il mestiere della tessitura possiede connotazioni iniziatiche? Che accada lo stesso per i moderni programmatori? E se così fosse, di quale “mistero” potrebbero essere gli argonauti, forse “semplicemente” di quello tecnologico? Paralleli inquietanti fra luce mistica ed elettricità? Bhà, ci penserò più tardi. L’altra cosa che mi colpisce è l’esasperata iconicità delle figure che si delineano sui monitor. Un’ iconicità sintetica in qualche modo ierofanica, di cui la reiterazione dei movimenti contribuisce a connotarne un carattere oscuramente mitico ed ipostatico. Sono evidentemente immagini mentali, come nella Bild wittgensteiniana, corpi sottili in cui i giocatori -i misti, i cavalieri– si proiettano con tutto il loro essere, immagini che sono già una estensione virtuale del proprio corpo. Già, “cavalieri”, poiché per lo più le simulazioni sono di cruento combattimento, in saghe sospese tra il medioevale e il fantascientifico, permeate profondamente di quella future memory individuata dai nuovi designer giapponesi -o conceptors, come amano definirsi- come la sintesi iconico-concettuale delle più intime aspirazioni estetiche contemporanee (così ben sondate dal mercato!); che sono mitiche in quanto sospese tra un passato proiettato nel futuro e un futuro già consumato dalle aspettative, congelate nell’eterno presente del mito, del c’era una volta. Della nostalgia delle origini che è alla radice della fabulazione religiosa, direbbe Mircea Eliade in compagnia di qualche psicanalista. E della pratica artistica, aggiungerei io, volta -prima della razionalizzazione manieristica che la separò dalla pratica scientifica, e prima delle rivoluzioni desemantizzanti della modernità- a dar corpo, voce, consistenza al mito, alla Grande Proiezione Collettiva.

Quella che si celebra in questa sala giochi mi sembra proprio essere l’iconizzazione più esauriente della nostra proiezione collettiva, così come forse accadeva per il mito religioso nelle cattedrali gotiche e nelle basiliche romaniche, i cui artisti, per lo più, erano nascosti dall’anonimato, esattamente come i programmatori di Street Fighter o di Sonic. Ma il magico porcospino azzurro (che di recente si è guadagnato la copertina della prestigiosa rivista di tendenza londinese “I-D”) non è in sala giochi, abita le consolle Sega (o Nintendo?) che fanno impazzire gli adolescenti della cosiddetta Bit Generation, abituata fin dalla prima infanzia a praticare il mito apocalittico contemporaneo.

Si, perché è innegabile, la più grande rivoluzione antropologica verso cui il nuovo millennio si dirige è prodotta innanzitutto dalla possibilità di entrare nel mito, di frequentarne lo spazio concettuale al di là della sua evocazione simbolica attraverso la scrittura, la narrazione orale o l’arte tradizionale. E’ il cosiddetto cyberspace, lo spazio della realtà virtuale, che anch’io frequento a casa mia (lo confesso) attraverso programmi-gioco come Ultima Underworld, saga interattiva (visuale soggettiva full immersion, movimenti completamente liberi a 360°, dialogo “intelligente” con i personaggi, soggetto mitologico completo di tutte le funzioni proppiane) fra le più diffuse fra gli utenti di Personal Computer.

E l’arte, nata proprio come logos che traduce, tramanda, a volte tradisce, il mythos (entrambi i termini significano, come noto, “discorso”), diventata nel contemporaneo esperienza ludica preziosamente inutile (come ci hanno imposto i dadaisti), parola risemantizzata che agisce come grimaldello fra le parole ordinate del senso -o discorso– comune, data erroneamente più volte per morta (in realtà, ora lo sappiamo, semplicemente si trasforma), non si troverà forse oggi in un nuovo medioevo, certamente tecnologico ma formalmente analogo al periodo che precedette in occidente la fondazione del soggetto artistico? E fra gli anonimi programmatori/scalpellini delle immagini di sintesi dei videogiochi, non si nasconderà forse qualche Cimabue del nuovo secolo?

I termini sembrano esserci paradigmaticamente tutti: l’immagine, il mito, il gioco. Certamente resta l’interrogativo sulla differenza fra game e play -di cui ricordo scrisse Umberto Eco- cioè fra gioco finalizzato (alla vincita, al guadagno etc.) e gioco libero -e liberatorio- fine a se stesso, così tanto simbolico perciò, come già diceva Eugen Fink negli anni ’50, del mondo e della vita intera. Ma Giotto non era forse pagato, per quello che faceva? E Cucchi? L’artista romantico, quello sì, che è morto davvero. I puristi dell’arte fine a se stessa, nemici di ogni arte applicata ed integrata, dovrebbero forse ricordare Dewey, quando scrisse che le forme d’arte più efficaci del suo tempo erano proprio quelle che i contemporanei non riconoscevano come tali. E oggi, oltre al design, alla fotografia, al cinema e alla pubblicità, quanti nuovi media stanno nascendo che potrebbero ospitare la nuova trasformazione dell’arte? E se ad esempio lo spazio virtuale diventasse davvero praticato comunemente (tramite la multimedialità delle tecnologie informatiche), nasceranno -oltre agli architetti dello spazio virtuale- anche i pittori e gli scultori, del mondo di nowhere?

Una voce metallica seguita da un didaa orchestrale sintetizzato mi riporta al mondo reale, quello dell’hardware scrostato delle macchine da gioco e dell’aria fetida del grande scantinato che le ospita. I volti, con la retina impressionata dai fotoni televisivi, mi sembrano stranamente verdastri ed irreali, traslucidi, spiritualizzati. Mi dirigo verso l’uscita, notando quanto la nostra visione binoculare ci restituisca un effetto 3d quasi perfetto. Un ragazzotto mi urta, esco. “A riveder le stelle“. Perchè ormai è tardi, e la galleria d’arte sarà chiusa. E perchè la visita a quest’ altra “galleria” mi è sembrata, in fondo, una visita agli inferi.

Della rappresentazione, ovviamente.

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