Nelle mitologie di derivazione semitica e cristiana, il concetto di “immagine” fa certamente una delle sue prime apparizioni nell’Antico Testamento, laddove si afferma che l’uomo è “fatto ad immagine e somiglianza di Dio”. Nei primi capitoli della Genesi, infatti, è narrato come Adamo sia – in un certo senso – l’immagine della divinità1.
Tuttavia, all’interno di questo rapporto primordiale ed arcaico fra ciò che potremmo mitologicamente considerare la realtà (il Divino) in relazione alla rappresentazione (l’umano), fa immediatamente la sua comparsa un terzo elemento, Eva, compagna di Adamo la quale, pur essendo dal testo sacro assimilata nella sua essenza alla totalità indivisa dell’Adamo primordiale (che è contemporaneamente maschio e femmina2), “tecnicamente” si manifesta – come essere disgiunto ed autonomo – solo quando Dio la trae, secondo la Scrittura, da una costola di Adamo. In tal modo essa risulta essere – come in un frattale – una sorta di immagine dell’immagine3: una specie di specchio, insomma, grazie al quale, alla prima immagine ontologica – cioè all’Adamo primordiale che diventa maschio solo nel momento in cui da esso viene “tratta” la femmina –, viene ri-velata, conferendogli uno sguardo che è soggetto percettivo (subjectum) di un oggetto esterno a sé (objectum) 4, la propria primordiale origine di proiezione celeste, di rappresentazione – in Terra – di Dio stesso5. È in questo senso – probabilmente – che vanno interpretate le affermazioni di taluni autori islamici secondo i quali “Dio ama l’uomo quanto Adamo ama Eva”: Adamo, nella luce della bellezza di Eva, vede il riflesso di se stesso e della propria origine celeste6. E, verosimilmente, in modo analogo va interpretata la concezione “cortese” dell’amore, considerata anche l’assimilazione simbolica che può essere individuata fra la “donna” dei “Fedeli d’amore” e “sophia“, la conoscenza.
Esiste quindi un rapporto speciale e privilegiato fra Eva, “madre dei viventi” secondo l’etimologia ebraica, e il fenomeno – più che l’idea – di immagine, concepita come riflesso – per così dire “lunare” – della Luce divina stessa; Luce che, simbolicamente, è a sua volta riflessa dal Sole.
Un rapporto, mitico ed originario, che è confermato dal fatto di aver comunemente considerato la bellezza come una caratteristica sensibile archetipicamente associata al principio femminile ed alla sua potenza seduttiva, e – contemporaneamente – come l’estrema espressione, forse in quanto “conoscenza”, del connotato ontologico stesso dell’Estetica. Rapporto speciale e privilegiato che infatti ancor oggi vede convergere all’interno di un comune indice semantico, la donna e tutto quanto concerne l’apparire – esteriore se non addirittura “oggettuale” – delle cose.
Nella maggior parte delle culture è generalmente la donna (o la parte femminile dell’uomo, se si vuole) che cura l’estetica del proprio e dell’altrui apparire, che decora il proprio corpo e che è particolarmente sensibile – come ancor oggi accade nelle società moderne e contemporanee – alle mode e alle tendenze estetiche. E’ la donna che – in altri termini – detiene il potere estetico sul mondo, sia in relazione al trattamento e all’ornamento del corpo, della casa o dell’abbigliamento, sia in relazione al governo del visibile in senso lato.
Possiamo anche considerare un altro aspetto, relativo al concetto di immagine intesa come idea intimamente correlata al principio femminile: dal punto di vista fisiologico – segnatamente nella morfologia dell’apparato riproduttivo umano – è possibile concepire il rapporto fisico che intercorre fra il fallo e la vagina come un rapporto che si sviluppa fra un oggetto e la sua immagine, in un certo senso il rapporto fra una forma ed il suo calco. Quest’ultimo può a sua volta diventare matrice di un’altra forma, “madre” di un altro “figlio”. In questo senso, la biblica costola di Adamo appare come una forma simbolica indicante il fallo, l’“oggetto” per eccellenza secondo la psicanalisi. La vagina, formalmente, si configurerebbe dunque come l’impronta – o il “negativo” – della forma stilizzata della costola, e metaforicamente apparirebbe quindi come un riflesso – o letteralmente come un’“immagine” – del fallo stesso.
Se consideriamo ora il ruolo e la funzione, che l’idea di immagine ha posseduto – e possiede – nel corso della storia, ci accorgiamo che gli approcci filosofici sono sostanzialmente due: da un lato troviamo diverse forme di iconoclastia, cioè di avversione all’immagine, molto diffuse in determinate culture non solo dell’antichità; dall’altro, viceversa, una tendenza culturale che considera ed ha considerato l’immagine, particolarmente in Occidente, come un “enzima” mediatico fondativo ed irrinunciabile del proprio metabolismo sociale. È noto, ad esempio, come in ambito semitico (l’ambito da cui si è paradosalmente sviluppata l’intera cultura iconografica del cristianesimo), l’immagine sia stata originariamente considerata come un fenomeno estremamente problematico, al punto da descrivere le condizioni storiche di deriva spirituale come momenti ciclici in cui l’immagine ha il sopravvento sulla parola, il verbo, che viceversa è astratto e ri-velato. Tanto risulta, per esempio, dalla parabola biblica del Vitello d’oro o – ancora – lungo tutta la narrazione visionaria dell’Apocalisse di Giovanni, dove la nota “immagine della bestia” possiede un ruolo emblematico e fondamentale.
In questa prospettiva è importante considerare attentamente il fatto – apparentemente banale – che la società contemporanea sia stata definita “società dell’immagine”: nella cultura occidentale, moderna ed “avanzata”, è palesemente l’immagine a detenere il ruolo principale di enzima della cultura. Il concetto di “idolo”, come lo troviamo descritto nell’antica cultura semitica, delinea un fenomeno molto simile – ma molto meno potente e significativo – a ciò che corrisponde, nella nostra cultura di massa, ad una qualsiasi delle più semplici immagini mediatiche o al più comune logo pubblicitario.
Aggiungiamo una notazione: la “società dell’immagine” nasce e si sviluppa in corrispondenza della progressiva declinazione al femminile della società, e le prime, moderne, tecnologie mediatiche, si affermano al fianco della “presa di coscienza femminista” nella cultura; ma approfondire questo tema ci porterebbe troppo lontano.
Nelle culture tradizionali, anche contemporanee, come nel caso esemplare della cultura islamica, esiste un’evidente corrispondenza fra una sorta di “pudore” che caratterizza il rapporto con l’immagine – e che anche senza divenire iconoclastia la considera un elemento quanto meno problematico della comunicazione – ed un analogo pudore connesso all’esser donna e, in generale, all’elemento femminile. Questo si esprime, per esempio, nella pratica vestimentaria orientale, che prevede l’occultamento, se non del corpo intero almeno del capo, e spesso del viso, della donna, considerato forse – se l’ipotesi è corretta – come lo specchio primordiale di una bellezza intesa come l’archetipo stesso dell’immagine sensibile7.
Possiamo dunque dedurre che la società contemporanea occidentale si configura come una società di segno eminentemente femminile. Malgrado nella quotidianità la politica e l’amministrazione del potere sembrino ancora saldamente in mano al maschio, se confrontata con le culture tradizionalmente patriarcali (anche contemporanee), la nostra appare come evidentemente matriarcale. L’ambito mediatico contemporaneo, così come si esprime nei mille rivoli delle tecnologie di comunicazione di massa – dal cinema alla televisione, dai rotocalchi alla Rete – si nutre, e nutre la sua cultura, quasi esclusivamente di immagini, pervasive e patinate; ed è proprio l’immagine della donna che, pur con registri linguistici estremamente evoluti e formalmente diversificati (come avviene nel caso della comunicazione pubblicitaria) resta quella di riferimento, quando si voglia connotare in maniera convincente un prodotto, o – più di recente – un’ideologia.
Se è vero che Internet rappresenta nell’attuale cultura mediatica l’immenso serbatoio delle fedi, dei i miti e delle idee della contemporaneità, risulta piuttosto evidente come proprio l’immagine della donna, giocata e disvelata in innumerevoli declinazioni, ne percorra tutta l’ampiezza semantica; allo stesso modo, è facile verificare come la maggior parte delle dinamiche di partecipazione alla vita delle cosiddette comunità virtuali, consistano proprio nell’esibizione – variamente connotata – dell’immagine femminile. A cominciare dalla straordinaria virulenza della pornografia, fino ad arrivare alle numerose tipologie di luoghi di incontro virtuale, Internet appare come la più grande galleria di esposizione del corpo femminile mai apparsa nella storia.
Esiste un rapporto analogico che intercorre fra il lento ma inesorabile “femminilizzarsi” della cultura contemporanea, e il più veloce – ma ugualmente endemico – svilupparsi di una società che è sempre più dell’immagine. È noto come i modelli di identificazione dominanti, per quanto riguarda il femminile, gravitino essenzialmente intorno ai paradigmi dello spettacolo e dell’affermazione in termini di successo della propria immagine mediatica. E questo, in termini antropologici, è alquanto contraddittorio: se da un lato esiste da tempo un movimento intellettuale – forse concluso – teso all’affermazione della dignità umana della “persona” donna che prescinda dal suo essere corpo e dunque “oggetto”, dall’altro tale affermazione sembra ripercorrere fondamentalmente i termini – già definiti come “maschilisti” – di un “essere donna” che in definitiva si propone essenzialmente come “cosa”. L’esasperazione della cultura dell’identità come cultura dell’apparire del corpo, si è anzi talmente estesa da includere nel proprio ambito anche l’identità – tradizionalmente opposta – dell’uomo. Il risultato di questo processo è stato un affiorare di ogni significato in superficie, sia che riguardi l’identità della donna sia che riguardi quella dell’uomo, configurando l’epidermide di una sorta di ermafroditismo culturale.
Ciò che sta avvenendo non consiste tanto nella dismissione dell’idea tradizionale di “donna oggetto” in favore di una più nobile concezione che riconosca all’esser donna valori diversi da quelli arcaici della pura ma simbolica fisicità; viceversa sembra trattarsi della riduzione, di quella antica oggettualità, ad uno solo dei sensi attraverso i quali può essere percepita e al quale di conseguenza può concettualmente rivolgersi: il senso della vista. Spesso, cioè, sembra di trovarsi di fronte non tanto ad una “donna-oggetto” che ha riconquistato la completa dignità personale, ma ad un oggetto donna che perde letteralmente spessore e corporeità, per diventare alla fine pura immagine – vale a dire “rappresentazione” (virtuale) – di sé. Il fatto poi che tale riduzione dell’oggetto alla pura visibilità riguardi anche il maschio, esprime l’abdicare – da parte dell’uomo – al ruolo di “signore” e “padrone” da lui rivestito, nel passato tradizionale, in relazione al concreto e corporeo oggetto “femminile” ( il “campo”, la “terra”, i “figli”, il “patrimonio”).
In altri termini, dalla condizione pre-moderna che nutriva sia nei confronti della donna sia nei confronti dell’”immagine” un atteggiamento di sacrale problematicità (in quanto entrambe entità variamente riconducibili agli altrettanto problematici concetti di rappresentazione e di riproduzione), ad una cultura moderna che vede nascere, insieme al movimento di rivendicazione del valore autoreferenziale del femminile, le tecnologie di riproduzione meccanica dell’immagine. Tali tecnologie consentirono alle immagini (cioè alle rappresentazioni) di “uscire” letteralmente – come le donne dalle case – dagli ambiti loro specifici (quelli della produzione, dell’utenza e della museificazione, principalmente religiose), e di moltiplicarsi indefinitamente – come “copie” – all’interno della società, fino a costituire – alle soglie del post-moderno – la struttura portante della stessa cultura di massa. Da questa situazione poi, con l’affermarsi della postmodernità filosofica ed attraverso i processi tecnologici della digitalizzazione, l’immagine diventa protagonista assoluta, la “copia” diventa “clone” e sentenzia la sostanza di un oggetto femminile che, lungi dal riconquistare dignità soggettiva, vede ridurre il proprio statuto oggettuale ad uno solo dei sensi attraverso i quali può essere percepito e concepito, il senso della vista8, riducendo infine alla propria sostanza, di pura rappresentazione, anche il tradizionale soggetto di quell’oggetto di cui era immagine simbolica, l’uomo.
Ecco allora delinearsi il panorama attuale, in cui il disvelamento assoluto della donna – e di conseguenza di tutto quanto al principio femminile simbolicamente e tradizionalmente afferisce – corrisponde la proliferazione geometrica e frattale dell’immagine, veicolo privilegiato ed insieme corpo sottile di un processo che – dal punto di vista da cui si sarebbe posto un San Giovanni Evangelista – sembra possedere il carattere “apocalittico” dello svelamento.
Se l immagine è la rappresentazione del femminile ben venga e ci conduca alla smitizzazione delle ideologie di cui spesso sono veicolo. Se le immagini suggeriscono ma non spiegano occorre che anche la parola partecipi. La donna velata non mi piace perché rappresenta la negazione di ciò che deve essere suggerito e non imposto.