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19 – 1969

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Per comprendere cosa intendiamo con l’espressione “il mondo ridotto ad icona”, occorre risalire alla seconda metà degli anni ’60.

Nella storia recente di questo tormentato occidente, esistono infatti – come è sempre accaduto – date fatali, anni in cui sembrano addensarsi tutti gli accadimenti che poi, sviluppandosi, segneranno profondamente l’epoca successiva. Complesse variabili socio-antropologiche od improvvisi quanto casuali (caotici, nel senso in cui il concetto di caos viene inteso dalle moderne teorie della termodinamica) risvegli degli dèi olimpici che reggono i destini del mondo, fanno sì che spesso, in pochi mesi, avvenga tutto. Una di queste date fatali fu indubbiamente – così come può essere computata col calendario gregoriano – l’anno di grazia millenovecentosessantanove.

Anno fatale almeno per quanto avrebbe riguardato gli sviluppi futuri delle scienze della comunicazione. L’avvenimento sicuramente più rimarchevole fra gli altri, è infatti legato all’episodio che i più anziani ricorderanno come uno dei più mistici della loro infanzia: il 21 luglio, tre cosmonauti americani, posero – per la prima volta nella storia – il loro piede sulla luna.

Quello dell’ “uomo sulla luna” fu un avvenimento “neomitologico” cardinale, non tanto per le conseguenze che ebbe sulle scienze cosmonautiche (le quali d’altronde, forse per motivi di disillusione pionieristica che non è il caso qui di approfondire ma su cui sarebbe opportuno riflettere a fondo, furono presto essenzialmente abbandonate) o culinarie (da quei fantastici viaggi ci derivano infatti le stoviglie in teflon, il materiale che non fa attaccare il cibo durante la cottura e che fu sperimentato proprio in quell’occasione per proteggere le navicelle spaziali dalle altissime temperature cosmiche), quanto piuttosto per l’impatto emotivo che esso suscitò grazie alla più grande diretta televisiva di tutti i tempi: la cronaca – in tempo reale – degli spostamenti dell’equipaggio di cosmonauti sul suolo del nostro – ahimè, ormai violato – satellite.

Chi, ancora fra i più anziani, non ricorda le immagini sfocate ed ectoplasmiche in bianco e nero che, accompagnate dalle voci degli astronauti erose dalla distanza cosmica, illuminavano di luce catodica quello scorcio di fine anni sessanta, che in Italia corrispondeva al periodo delle ferie, quelle ancora non scaglionate, quelle raccontate da Alberto Sordi? Chi, fra coloro che assistettero “virtualmente” all’evento, non ne ricorda l’atmosfera magica quasi liturgica, non tanto per lo straordinario avvenimento che – narrando – la televisione celebrava, quanto per il potere ipnotico che esso assumeva nella nostra consapevolezza di essere moltiplicato all’infinito sugli schermi televisivi di tutto il pianeta, nel corso della prima grande “diretta” della storia? Mondovisione della visione del mondo che, proprio in quel momento, stava nascendo, attraverso quello “sguardo dal di fuori”, come successivamente ebbe a definirlo un altro grande Alberto – Boatto – che sanciva l’inizio autentico dell’era televisiva, come era delle rappresentazioni che sostituiscono la realtà anzicché semplicemente descriverla, celebrando nel contempo – in sordina – il battesimo ufficiale di quel villaggio globale appena teorizzato da Marshall McLuhan.

“Su questa terra inquadrata dall’esterno, possiamo posare uno sguardo insolitamente acuto come non mai nel passato: non che cosa è, dobbiamo chiederci, ma piuttosto che cosa è diventata. Un gigantesco objet trouvé sospeso (smarrito?) nei vuoti spazi del cosmo, un oggetto astrale spaesato, con maggior intensità certo di un classico ready-made di Duchamp”1.

E tale oggetto “impertinente” si è via via rimpicciolito, fino ad assumere le dimensioni concettuali di un mappamondo gonfiabile e sgonfiabile a piacere; in definitiva di un’icona.

Il progetto spaziale ha gradualmente – e letteralmente – ridotto il mondo ad icona.

Note
1. Op.cit.
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