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Non sta al sole raggiungere la luna 
e neppure alla notte sopravanzare il giorno. 
Ciascuno vaga nella sua orbita.
Corano, XXXVI, 40

 

Alla radice delle diverse visioni del mondo, e di conseguenza alla radice delle diverse visioni di ogni singola parte del mondo, c’è essenzialmente una diversa visione, o concezione, della Natura.

 

La Natura terribile del Cosmo

Una percezione della natura come benevola1 e favorevole nei confronti dell’uomo, sembra – da un certo punto di vista – essere stata alla radice delle visioni del mondo tradizionali e pre-scientifiche, come risulta osservando, per esempio, i principi etici e le leggi morali delle dottrine religiose, che di quei mondi lontani rappresentano le vestigia nella modernità, ma anche nella contemporaneità; esse, molto spesso, hanno descritto i comportamenti proibiti ed “illegali” come pratiche intese contro la natura, giungendo, da un punto di vista filosofico, ad assimilare il peccato stesso (cioè la trasgressione ad un ordinamento che è concepito come rivelato dalla divinità) all’azione contro natura; di questo atteggiamento è noto il caso, esemplare, del racconto biblico relativo al destino di Sodoma e di Gomorra.

In casi come questo, si considera evidentemente che ciò che è giusto e corretto (il bene), relativo qui all’ambito sessuale, coincida con un comportamento che  deve essere semplicemente conforme a quanto si considera come implicitamente indicato dalle leggi fisiche della procreazione, la cui funzione fisiologica appare – in tale prospettiva – come il fine supremo della sessualità; mentre ciò che è ingiusto e scorretto (il male), sembra essere considerato tale – e dunque peccaminoso – proprio perché esprime un agire in qualche modo “autonomo” ed indebitamente “svincolato” dalla ferrea logica – fisio-logica – della natura. Logica che – occorre sottolinearlo – in tali concezioni manifesta se stessa primariamente nel mondo fisico, pur presupponendo, da un punto di vista metafisico, una sua diretta emanazione dalla sfera spirituale. Nella concezione religiosa, infatti, lo spirito – inteso come luogo dell’idea, origine e modello della realtà – con il suo essere plasma letteralmente la materia, la quale, proprio per questo, assume il significato di una manifestazione simbolica dello spirito medesimo, del quale è espressione analogica nel mondo materiale. In questa prospettiva, dunque, ciò che apparentemente può sembrare più lontano dallo spirito – vale a dire la materia e le sue forme, comprese quelle fisiologiche nell’uomo – diventa per ciò stesso una sorta di ri-velazione naturale dello spirito: e poiché lo spirito costituisce la verità profonda della materia, le leggi della materia, determinate dalla Natura, diventano – quasi tautologicamente – la verità dello Spirito. Dunque, la Verità in sé.

Avviene però anche il contrario: nella dottrina cristiana – ma anche nelle altre dottrine religiose tradizionali – tale rapporto tra Verità e Natura è nell’insieme più problematico, e talvolta la natura viene descritta come un ostacolo, sul cammino verso la verità e la realizzazione spirituale che ne dovrebbe conseguire, realizzazione che nel cristianesimo prende segnatamente la forma della “salvezza”.

Insomma, da un lato la natura è considerata come un “modello” da imitare nelle mute indicazioni “cifrate” intrinseche alle sue leggi, come accade nel caso relativo alla liceità sessuale; dall’altro, essa è intesa viceversa come l’impedimento principale col quale confrontarsi lungo tale cammino, come si evince chiaramente dall’espressione, e dal relativo concetto, di “peccato carnale”, sul distanziamento dal quale si imperniano – per esempio – il sacerdozio cristiano o quello buddhista, caratterizzati entrambi da una rigorosa osservanza della castità.

Probabilmente nel cristianesimo – ma anche nelle altre religioni del ciclo semitico e verosimilmente in tutte le tradizioni antiche – tale apparente contraddizione si risolve considerando anche una dimensione “verticale” rispetto al piano esistenziale della vita, dimensione che è – ovviamente – intrinseca a tali dottrine, come si esprime nello stesso simbolismo (ancora una volta, non solo cristiano) della croce: poiché il percorso spirituale della realizzazione si colloca non tanto sulla dimensione “orizzontale” del mondo, bensì su quella “verticale” dello spirito2, la natura – che viceversa si colloca evidentemente sul piano orizzontale del mondo – è “buona” e “giusta” solamente in relazione a tale dimensione, mentre diventa un ostacolo quando è riferita alla via del suo trascendimento, posta sulla retta verticale – ed ascensionale – dello spirito.

Il fatto poi che una linea verticale possegga necessariamente due direzioni, una rivolta verso l’alto ed un’altra verso il basso, dà ragione all’assimilazione del percorso di discesa (o di “inabissamento”, rispetto alla dimensione orizzontale del mondo) ad un’infrazione “sottrattiva” rispetto la “legge di natura”, la quale si colloca appunto sul piano orizzontale dell’esistenza. Ciò risulta evidente nel caso del simbolismo universale della “caduta” o nella stessa formulazione del concetto di inferno, termine che indica letteralmente qualcosa di “inferiore” che si colloca “al di sotto” di qualcos’altro.3

Per questi motivi, l’agire contro lo Spirito coincide – in tale arcaica prospettiva – con l’agire contro la legge della Natura. E, secondo la tradizione indù dei cicli cosmici, tale comportamento in qualche modo “invertito” è connotato solo all’ultima delle “quattro età”, quella – corrispondente all’ “età del Ferro” di Esiodo – chiamata dai testi sacri Kaly Yuga, o “Età di Kaly”, la Dea caotica dalle molteplici braccia.

 

 

La Natura domata del Caos

Le concezioni moderne e contemporanee del mondo e della natura, tendono ad avere una posizione non meno problematica, ma fondamentalmente imperniata sull’idea di “insufficienza” della natura, che sconfina ben presto con un attributo di negatività: la natura è cieca e distaccata, quindi crudele nei confronti dell’uomo; il quale – però – ha la possibilità, in chiave evolutiva, di correggerne il percorso e – tramite la tecnologia – di ricondurlo al vantaggio della propria sopravvivenza. Si può supporre che la ricerca scientifica moderna, inaugurata nel Rinascimento da cellule mutanti dell’ermetismo, nasca proprio in tale prospettiva: il giudizio nei confronti della natura si sposta, da una concezione che la considera come ordinata ed esemplare ad un’altra che la vede come caotica ed approssimativa. Si suppone che l’uomo, dotato di una ragione che è verosimilmente concepita nell’occidente cristiano come la prova – e la stessa conseguenza – del proprio teomorfismo (cioè dell’essere stato creato ad immagine e somiglianza di Dio), abbia la possibilità ed anzi il dovere di “proseguire l’opera della Natura la dove la Natura l’ha interrotta”4, piegando i suoi percorsi a proprio beneficio, e abbandonando gradualmente l’idea che le “indicazioni” contenute nei processi naturali posseggano un carattere stabilmente ierofanico, cioè rivelatore della stessa volontà divina.

Nella modernità, la natura, concepita non più come immutabile ma come sensibile all’opera di reindirizzamento che l’uomo può imporle, perde quel carattere divino di “assolutezza” che indirettamente implicava, nel passato, la sua “adorazione” – diretta od indiretta – come “rivelazione naturale” (tramite il culto degli esseri sovrannaturali che si supponeva ne reggessero le fila), e si trasforma infine in un mero strumento al servizio di una volontà che percepisce se stessa come totalmente svincolata da tutto ciò che non sia un progetto esistenziale esclusivamente umano.5

Questa considerazioni, circa le due modalità fondamentali di porsi da parte dell’uomo di fronte alla natura, aiutano a capire più profondamente molti fenomeni culturali che caratterizzano la nostra “civiltà”, dato che oggi, malgrado quella “morte di Dio” sopraggiunta proprio a ridosso dello sviluppo tecnico-scientifico, sopravvivono ancora – se non altro sotto la specie delle fedi religiose – posizioni concettuali radicate nell’idea antica ed ambivalente di natura benevola e ierofanica (poiché immutabile), che immancabilmente si contrappongono ad altre che confidano completamente nella presunta comprovata capacità tecnologica dell’uomo di piegare la natura ai propri desideri, rigettandone di conseguenza il carattere assoluto di “guida” del comportamento.

 

 

Il maschile e il femminile

Per affrontare il tema della ridefinizione culturale in atto nella civiltà contemporanea dei concetti di maschile e femminile – e vedere da vicino il carattere preciso della metamorfosi che la concezione di appartenenza di genere sta subendo nella cultura occidentale – occorre quindi fare qualche riflessione.

Innanzitutto occorre considerare che nella visione del mondo tradizionale, sul cui sfondo esistenziale si situa quell’idea di natura terribile ma benevola che abbiamo precedentemente delineato, nel contesto di una suddivisione generale delle cose fra realtà – o enti – che partecipano al principio maschile, oppure – viceversa – a quello femminile dell’essere6, la Natura stessa, nell’insieme dei suoi molteplici aspetti e come esplicazione del divenire, è considerata in sé la manifestazione principale del principio femminile, come risulta evidente, per esempio, nei miti relativi all’archetipo della grande madre; viceversa, al principio maschile è connotato ciò che, in quanto spirito, si considera collocato al di là della natura.7 Questo significa – per anticipare in parte alcune considerazioni- che, dal punto di vista tradizionale, qualsiasi azione pratica o simbolica rivolta verso la “natura”, è da intendersi come indirettamente rivolta anche al principio femminile, e conseguentemente – come subito vedremo – a ciò che di tale principio è, nell’universo umano di riferimento, la manifestazione diretta, vale a dire la donna. Questo comporta per esempio, ma altrove approfondiremo tale aspetto, che – in una prospettiva tradizionale – l’idea, tutta moderna, di poter “dominare” la natura contiene implicitamente l’idea di poter “dominare” la donna, e che qualsiasi operazione di asservimento di essa natura potrebbe essere viceversa intesa – dal punto di vista della critica moderna – come prerogativa di un atteggiamento in qualche modo “maschilista”.8

Premesso ciò, occorre probabilmente delineare brevemente come, nelle culture tradizionali, erano concepiti i generi sessuali, e come tale concezione si inscrivesse – e ancora si inscriva, nel caso delle culture non occidentali – in una concezione del mondo dominata dall’idea di una natura positiva ed esemplare. Non è tuttavia questa la sede dove approfondire le caratteristiche socio-culturali e magico-religiose di tali civiltà tradizionali, nozioni che possono essere agevolmente ravvisate in diversi trattati, quanto piuttosto l’occasione per sottolineare alcuni di questi aspetti direttamente connessi alla concetto di natura.

Si cominci col considerare che – come si accennava – in visioni del mondo che concepiscono la Realtà come composta di due livelli, l’uno visibile e l’altro invisibile, la natura medesima (e per la precisione la natura naturata9) è connessa al principio femminile, il quale in effetti concerne tutto ciò che – in quanto corporeo – è sottoposto alla legge della generazione, della quale la femmina – in ogni specie – è l’evidente veicolo. Il concetto di maternità domina infatti la concezione tradizionale della donna, e le funzioni biologiche ad essa connesse nella compagine corporea, costituiscono la struttura portante di un “simbolismo” naturale che rivela – nell’immediato linguaggio delle forme – aspetti nascosti ed evidenti dell’essere – in questo caso – “donna”.

E’ importante sottolineare che da tale punto di vista questo processo di corrispondenza, fra corpo e carattere, che pure viene a volte riconosciuto anche dalla filosofia contemporanea, a differenza di quest’ultima non ravvisa la sua genesi in una forma di adeguamento psicologico ad una determinata condizione fisica, prospettiva che ben presto diverrebbe, agli occhi dell’uomo tradizionale, indicativa della cultura anziché della natura, i cui caratteri – proprio attraverso questo processo – vogliono essere identificati; piuttosto, tale corrispondenza è ascrivibile ad una sorta di continuità ontologica, spontanea ed endogena, fra forma, carattere e funzione.

Ecco che allora la stessa morfologia sessuale diventa oggettiva forma simbolica: la forma del corpo, e in particolare degli organi sessuali che ne differenziano il genere (ed al limite anche la dinamica biochimica dei meccanismi del concepimento e della gravidanza, oggi noti attraverso le tecniche della microscopia), risultano essere il versante manifesto e funzionale di un composto esistenziale – l’essere umano – considerato come ideale, pre-esistente e complesso, che presenta diversi livelli di manifestazione fra loro corrispondenti e analogicamente strutturati.

Conseguentemente, secondo la prospettiva tradizionale, tale status quo, del corpo e della sua morfologia10, diventa la traccia fondativa ed interpretativa dello stato complessivo preso in considerazione, la chiave evidente attraverso cui leggere l’insieme caratteriale, etico e funzionale, in questo caso, dell’uomo o della donna.

Il corpo esiste nello spazio, e proprio in riferimento allo spazio si delinea la prima  ed importante corrispondenza simbolica fra morfologia e carattere psicologico, così come comunemente viene percepito nel contesto delle culture tradizionali. La morfologia dell’apparato riproduttivo, maschile o femminile, descrive palesemente gli ambiti spaziali di competenza stabiliti per i sessi dalla natura, che attribuisce il dentro ed il fuori rispettivamente alla donna ed all’uomo. Da tempo anche il pensiero razionale moderno, sul versante psicologico della ricerca, ha individuato una evidente corrispondenza – per esempio – fra simbolismo della casa e principio femminile, basandosi proprio sul fatto che l’utero, come attributo della donna nella dinamica biologica della riproduzione, è vissuto archetipicamente da entrambi i sessi come prima casa, involucro protettivo collocato dentro il corpo, che contiene a sua volta – al proprio interno – il feto11. In questo senso, anche i tradizionali tratti caratteristici e comportamentali attribuiti – sia come “dover essere” sia come inclinazione – al principio femminile, potrebbero essere ricondotti – e di fatto lo sono, nelle culture tradizionali – a tali corrispondenze psico-fisiche: il concetto di pudore, per esempio, connesso tradizionalmente ad una inclinazione naturale della bambina, rimanda alla stessa categoria meta-spaziale dell’interno, che produce un’idea di protezione come tendenza principale di chi – la donna – tale interno, per così dire, letteralmente lo incarna. Non si tratterebbe tanto della tendenza innata – in prospettiva evoluzionistica – alla “protezione dei cuccioli”, che l’uomo condivide con gli altri animali, quanto di una vera e propria signatura rerum che connota la femmina come essere che si chiude, proprio perché possiede ed incarna un “interno” che il maschio – da parte sua – non può che concepire, ed eventualmente desiderare, solo come esterno a sé.

In questo senso al maschio, connotato morfologicamente come portatore di un oggetto – il pene – che si colloca nel fuori – e che questo fuori connota, proprio attraverso la propria presenza – corrispondeva, nell’ordinamento sociale delle culture tradizionali, l’ambito che potremmo definire pubblico, ambito che vedeva  l’uomo impegnato nelle attività che si svolgono fuori dall’ambito domestico, interno, quali la caccia, la guerra od il commercio. Alla medesima connotazione simbolica può essere ricondotta la stessa pratica del viaggio inteso proprio come spostamento nel fuori, che Omero, nell’Odissea, delinea mirabilmente come attitudine maschile  principale di Ulisse, contrapposta alla corrispondente attitudine femminile del permanere nel dentro, rappresentata da Penelope e dal suo “proteggere” – attraverso il pudore – la “casa”, intesa come luogo interno e privato.12

Di fronte a tali connotazioni simboliche, basate sulla legge dell’analogia, le culture tradizionali scelsero di assecondare la Natura, costringendone gli elementi “eccentrici” all’interno delle sue chiare indicazioni di principio: ecco perché nell’antichità il dovere dell’uomo è stato considerato essere innanzitutto quello di conformarsi il più possibile al principio maschile e il dovere della donna quello di conformarsi il più possibile al principio femminile. Ed ecco perché la cultura moderna ha viceversa individuato proprio in quelle “eccentricità” il carattere fondamentale della propria visione del mondo e – di conseguenza – della natura stessa.

Note
1. Dove l’aggettivo “benevolo” – che in sé indica una caratterizzazione etica evidentemente inapplicabile ad una realtà sovra-individuale quale è l’insieme dei fenomeni naturali – descrive essenzialmente una coerenza globale – diremmo oggi “ecologica” – degli equilibri derivanti dall’insieme delle leggi di natura.
2. Si pensi, oltre al concetto di “cielo” inteso come simbolo assimilabile alla stessa divinità, al racconto biblico circa la scala di Giacobbe, o al simbolismo relativo all’ascensione al cielo di Cristo e di altri “eletti” o, parimenti, a quello islamico relativo alla cosiddetta “retta via” (aṣ-Ṣirāṭ al-mustaqīm).
3. Può essere utile in questo senso pensare alla dottrina orientale dei tre guna, le tre qualità cosmiche riferite rispettivamente all’innalzamento (ràjas), all’espansione (sàttva) e alla discesa (tàmas), a cui partecipano – secondo tali tradizioni – tutte le cose manifestate; od anche allo stesso simbolismo del viaggio dantesco attraverso i tre piani dell’aldilà, l’inferno, il purgatorio e il paradiso.
4. Nei testi alchemici si afferma che “la natura va seguita nel suo metodo e non nei suoi risultati”, e che lo scopo della Grande Opera (di trasformazione del piombo in oro,  o della materia in spirito) è di “proseguire l’opera della natura là dove la natura l’ha interrotta”.
5. Questo cambiamento di prospettiva corrisponde proprio ad un diverso modo di percepire l’operato della natura nei confronti dell’uomo. Una natura totalmente misteriosa, è passibile di essere sedotta tramite la ricerca della sua accondiscendenza, e nell’interpretazione moderna questo accade attraverso l’apparato rituale caratteristico delle civiltà arcaiche, nel contesto delle quali  sacrifici superstiziosi e  riti auspicali. esprimevano proprio il tentativo di rendere favorevoli le sue forze. Viceversa, via via che nel corso della storia e con lo sviluppo della civiltà moderna tali forze svelano alla ricerca scientifica i loro “segreti” – consentendo all’uomo di intervenire direttamente, attraverso la tecnologia, nelle loro intime dinamiche – si sviluppa sempre di più l’idea di poter dominare la natura, piuttosto che rendersela favorevole tramite le ritualità magico-religiose.
6. Maschile e femminile considerati come principi slegati dalla contingenza della loro manifestazione particolare, proprio perché, in tale visione idealistica delle cose, dietro ad ogni fenomeno naturale sta sempre e necessariamente una “idea” che nell’immanenza ne rappresenta una sorta di “specifico principiale” – collocato al di fuori del tempo e dello spazio – inerente al “progetto” della natura ed espressione della “volontà” divina.
7. Più oltre si darà ragione anche di questo aspetto della questione; per il momento basti considerare la valenza simbolica che (da un punto di vista tradizionale) può rivestire l’ “eccentricità” del cromosoma Y – in relazione alla normale sequenza XX comune a tutti gli zigoti – nella determinazione del sesso maschile.
8. La critica moderna, zelante come è stata ad individuare nelle concezioni tradizionali elementi di antifemminismo, si è spesso dimenticata (e tuttora lo dimentica, quando per esempio guarda alle culture orientali o mediorientali) della plausibile possibilità di interpretare, il tradizionale “rispetto” nei confronti della natura, come un indicatore simbolico – seppur in parte motivato da una certa impotenza pratica –  di un analogo rispetto rivolto alla Donna (da talune letture ridotto al mero tentativo di riscatto maschile nei confronti del “potere” procreativo della donna) ed al principio femminile stesso, considerato niente affatto “debole” ed “impotente” ma semmai, come risulta nel caso dell’idea induista di Prakriti – ipostasi del principio femminile – intesa come “potenza” cosmica”, talmente “potente” da necessitare – nel contesto di un progetto religioso di trascendimento del mondo – di un re-indirizzamento ultramondano che solo un elemento posto al di fuori della natura medesima – lo “spirito” maschile, nello specifico – può apportare.
9. Circa l’ambiguità fra Natura propriamente detta, dal carattere femminile, e  traccia nel mondo, quindi all’interno della Natura stessa, di ciò che la trascende, occorre forse riferirsi alla differenziazione neoplatonica ed ermetica fra “natura naturante” e “natura naturata” (natura naturans e natura naturata), alla quale ci siamo riferiti precedentemente ricordando che per gli alchimisti occorre seguire la natura naturans (cioè la Natura nei suoi metodi) piuttosto che quella naturata (cioè nei suoi risultati). Tale concezione può a sua volta forse essere ricondotta ad un tratto caratteristico di tutte le culture tradizionali, anch’esso spesso dimenticato dalla critica contemporanea, quello della suddivisione, all’interno di ciò che trascende il mondo della natura, fra anima e spirito: alla prima, all’ “anima”, corrisponderebbe proprio la natura naturans, intesa come principio intermedio fra “spirito” e “corpo”.
10. Perché di stato dato e definitivo si tratta in queste culture, non di dato passibile di mutamento più o meno evolutivo.
11. Una riconosciuta predilezione per le scatole, ed in generale i contenitori, nei giochi della bambina, non sembrano essere solamente riconducibili a fattori d’ordine culturale, bensì radicarsi in profonde ragioni simboliche poste al limite della psico-fisicità.
12. In questo, senso potrebbero forse essere ricondotta ad una dominante caratteriale maschile o femminile la caratterizzazione delle antiche popolazioni in nomadi e stanziali, che risultano fra l’altro connotate, come noto, con le arti del tempo, le prime, e arti dello spazio, le seconde. Tempo e spazio che – oltre al maschile e al femminile – corrispondono alle arti musicali e a quelle visive.
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