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René Guénon ne Il regno della quantità e i segni dei tempi, il suo ultimo saggio uscito alla fine degli anni ‘40 e nel quale il metafisico (filosofo, matematico ed esoterista) francese compediava tutto il suo pensiero in una prospettiva interpretativa della contemporaneità, per spiegare il concetto tradizionale di tempo ciclico si riferiva alla dottrina indù dei quattro yuga, quella stessa dottrina che trova nell’impianto escatologico di Esiodo relativo alle “quattro età dell’umanità” (l’età dell’oro, dell’argento, del bronzo e del ferro) il suo corrispettivo nella tradizione occidentale.

Non è questa la sede per approfondire dettagliatamente la dottrina tradizionale del “tempo ciclico”, per la quale si rimanda ai libri scritti dallo stesso Guénon oltre che da Mircea Eliade e da altri importanti studiosi1; nondimeno, di essa occorre qui considerare un aspetto specifico, quello della “contrazione” ciclica alla quale il tempo è progressivamente sottoposto secondo la Tradizione. Per l’induismo, il rapporto proporzionale che intercorre fra le quattro età diminuisce progressivamente via via che ci si avvicina alla fine del ciclo cosmico nel quale esse si collocano: per la precisione, ogni età risulta come dimezzata rispetto la precedente. La prima età dura infatti quasi quanto l’insieme delle tre rimanenti, la seconda quanto l’insieme delle ultime due e la terza il doppio dell’ultima, secondo un impianto proporzionale a scalare che richiama – in senso inverso – la famosa tetrakis pitagorica (1+2+3+4=10). E’ importante sottolineare che secondo lo scrittore francese – stando all’interpretazione dei testi indù – tale diminuzione non sarebbe tanto d’ordine quantitativo, bensì d’ordine qualitativo. Le quattro età non differirebbero – cioè – per quanto riguarda la loro effettiva durata, bensì per quanto riguarda l’intrinseca “qualità” di tale durata, la quale in sé – e non per il variare della distanza che separa, diciamo così, gli “attimi” al suo interno – subirebbe un vero e proprio processo di contrazione.

Riferendosi anche ad altri insegnamenti tradizionali riguardanti i “tempi ultimi”, Guénon afferma inoltre che è tradizionalmente prefigurata una sorta di “dissoluzione” ciclica del tempo in sé, tale da trasformarlo infine, come conseguenza della progressiva riduzione, di ciò che filosoficamente si può definire “qualità”, in pura “quantità”, vale a dire in spazio; infatti alla prima corrisponderebbe simbolicamente il tempo, mentre alla seconda proprio lo spazio.

Ora, è innegabile che l’immensa potenzialità delle tecnologie digitali contemporanee risieda fondamentalmente nel riuscire a “quantificare” ogni “qualità”. Digitalizzare qualcosa, infatti, sia essa un’immagine, un suono o qualsiasi altro oggetto, significa propriamente ridurre la “qualità” specifica di quella cosa alla sua pura e semplice “quantità”; la quale, nello specifico, non consiste a sua volta che nella mera successione numerica presente nelle sequenze dei cosiddetti byte, sulla tecnologia dei quali poggiano i processi digitali. Da questa “condizione” puramente quantitativa, risulta poi facile manipolare, duplicare, trasferire la “cosa” digitalizzata; tale stato, puramente numerico, è propriamente quello della “virtualità”. Riconvertire in un secondo momento la pura quantità propria dell’oggetto virtuale in una nuova forma qualificata, dipende poi solamente dalle periferiche usate a questo scopo, esattamente come nel caso di una stampante che restituisca su un foglio di carta un file di testo digitale. “Interpretando” attraverso una determinata periferica analogica (una stampante o un monitor, per esempio) le sequenze di byte (le specifiche “informazioni”) relative a tali testi, immagini o suoni digitalizzati, si ottiene infine una nuova forma “attuale” – più che “reale” – dell’oggetto sottoposto al processo di digitalizzazione. Occorre rimarcare anche che, tale processo di quantificazione, avviene tramite il sistema numerico in sé ontologicamente più “quantitativo”, vale a dire il sistema binario: esso riduce la qualità dell’informazione numerica ad uno stato minimale estremo (il bit), che prevede infatti due sole variabili di qualità, note in termini informatici come flags ed indicative di una condizione che può essere solo on oppure off, vale a dire – per usare altre espressioni informatiche – in uno stato di accensione oppure di spegnimento, di verità o di falsità. Tale condizione è più propriamente indicata – con i termini del sistema numerico binario – con le cifre zero e uno.

In questo senso è interessante notare come la tecnologia che ha caratterizzato la fine del secondo millennio – epoca che non ha corrisposto certamente alla fine del tempo intesa come fine della successione ma purtuttavia (per quanto in un certo senso questo possa preludere ad un nuovo inizio) alla fine di un determinato tipo di successione numerica, quella espressa dal suo “azzeramento” nel calendario gregoriano – sia la tecnologia fra tutte la più quantitativamente fondata (sul sistema binario, appunto) e – ancora – fra tutte l’unica in grado di “irradiare” tale caratteristica (possiamo ancora parlare di qualità?) sugli oggetti del proprio agire, sui quali attua – nel corso del processo definito appunto della “digitalizzazione” – la riduzione alla propria sostanza quantitativa, il numero.

In fin dei conti, un mondo digitalizzato è un mondo letteralmente numerico, un mondo di cose intrinsecamente ridotte al loro puro aspetto quantitativo, un mondo – potremmo dire – “ridotto ad icona”; ridotto, per la precisione, al gradino più basso – il numero due – della quantità stessa intesa come condizione dell’essere. E tuttavia anche un mondo in cui il tempo, cioè la condizione dell’essere caratterizzata dalla successione, che in termini spaziali può essere intesa come la dimensione “prospettica” della distanza esistente fra gli elementi che la costituiscono, è obiettivamente trasformato in uno spazio caratterizzato dalla compresenza di tali elementi costitutivi, disposti in “complanare” istantaneità.

Il “regalo” che il terzo millennio ha portato all’umanità è stato indubbiamente Internet, frutto ultimo delle tecnologie moderne di comunicazione che ha – in maniera tanto veloce quanto imprevista – sostituito (certamente nell’immaginario ma anche nell’esperienza e nella percezione empirica della realtà) la precedente scienza aereospaziale ed il suo progetto, gli orizzonti del quale per decenni abbiamo creduto essere la “terra promessa” – ed al tempo stesso la “redenzione” – della tecnologia occidentale e dello stesso metodo scientifico. I “cieli” aeronautici del progetto spaziale avevano infatti già sostituito i cieli della religione, mentre nell’immaginario collettivo il Duemila avrebbe potuto redimere, con la definitiva conquista di tali cieli, la colpa originaria dell’aver – in illo tempore – scelto di sostituire la fede teologica con la sfida tecnologica.

Ma questo non era evidentemente che un’utopia, probabilmente la proiezione sublimata stessa – nella sua evidente sostanza neomitica – dell’impianto filosofico, composto dallo schema colpa-salvezza-redenzione, proprio del cristianesimo, il quale anche per questo sembra collocarsi alle origini concettuali stesse della scienza occidentale. Vista col senno di poi, la tecnologia “del futuro” non è stata – dunque – la tecnologia dei viaggi spaziali, bensì la tecnologia delle telecomunicazioni; delle macchine che permettono, fra l’altro, di realizzare il viaggio “assoluto” – seppur virtuale – che consente di essere, nella rete, ubiquamente ovunque in “tempo reale”. Lo spazio e il tempo di Internet sembrano assoluti, poiché la rete si colloca nel non-luogo di tale cosiddetto tempo reale: nell’esperienza della rete il tempo soggettivo si trasfigura nella compresenza spaziale delle periferiche, mentre la durata si appiattisce sullo schermo della contemporaneità.

E tutto ciò avviene in quello che propriamente sembra essere – conformemente alla prefigurazione guénoniana – un tempo letteralmente trasformato in spazio; in quanto posto – nella compresenza del virtuale – al di là di ogni reale successione.

Note
1. Il contributo più significativo su questo argomento lo troviamo nei libri di Gaston Georgel, fra i quali segnaliamo in italiano Le quattro età dell’umanità, Il Cerchio, Rimini, 1981.
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